2015

Apres Pazzini le déluge

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Quando la Rivoluzione Francese era un miraggio più che una possibilità, quando Napoleone non aveva neppure compiuto 5 anni di vita nella sua Ajaccio, a sognare l’invasione genovese di Pasquale Paoli a liberare la Corsica dai francesi, Luigi XV di Borbone pensava alla sua straripante personalità e in una conversazione con Madame de Pompadour, Jeanne Antoinette Poisson, pronunciò una frase divenuta leggenda: apres moi le déluge. Dopo di me il diluvio. A ragion veduta, si direbbe. 

Probabilmente la stessa frase l’ha pronunciata anche Giampaolo Pazzini quando nel gennaio del 2011 lasciò la Sampdoria per andare all’Inter. Per lui la carriera non è stata in discesa, anzi, dopo quei primi sei mesi ha iniziato a peregrinare per valli fiorite, tra cambi di sponda a Milano e un’improbabile Verona. Fatto sta che dopo quella numero 10 alla Sampdoria, il numero sacro, il numero dei grandi campioni, c’è stato un diluvio, e l’attaccante di Pescia è stato l’ultimo a indossarla con onore, pur non appartenendo al ruolo che il canone dei numeri imponeva nel calcio classico, nel calcio dei numeri primi. 

Subito dopo Pazzini la 10 rimase ferma per sei mesi, in cerca di un proprietario: l’anno della retrocessione in B l’avvicendamento fu rapido, perché per pochissimi giorni la maglia per antonomasia finì sulle spalle di Fernando Tissone, poi ceduto in prestito al Maiorca, dove rimarrà a titolo definitivo. Dopo l’argentino, che aveva sempre indossato il 12, toccò a Pasquale Foggia indossare il peso della responsabilità: il folletto di Napoli in maglia blucerchiata non si è esaltato come la piazza sperava, come la società anelava. Segna appena quattro reti, di cui due fondamentali per la vittoria su Ascoli e Grosseto, ma a fine anno, nonostante l’obbligo di riscatto, il Doria decide di non trattenerlo in Serie A e di rimandarlo alla Lazio, dove Pektovic lo mette fuori rosa. 31 presenze in maglia blucerchiata, con tre nei playoff, ma nessuna grande magia da numero 10, se non quella con i tifosi, ai quali diede un passaggio dopo una lunga trasferta in Campania. 

L’anno del ritorno in Serie A tocca a Maxi Lopez, che di ricordi ne ha lasciati due forti e appartengono entrambi al periodo con Mihajlovic, quando indossava ben altra maglia, la 7. Il primo anno d’altronde era già diventato l’ombra di Mauro Icardi, per il primo atto di una sceneggiatura da Golden Globe. Oscar no, sarebbe troppo. Arriviamo dunque al recente passato, quello che si chiama Nenad Krsticic, l’offesa massima alla 10, relegata sulle spalle di un centrocampista che ancora oggi si domanda quale sia il suo naturale ruolo in mezzo al campo. Figlio di un’operazione mediatica ben riuscita dopo il fallo subito nel famoso derby di Matuzalem, il serbo diventa l’eroe della patria. E come era solito dire Goebbels, ministro della Propaganda, se ripeti una bugia mille volte prima o poi diventa una verità. E la nostra verità divenne che Krsticic era un signor centrocampista, ma che dopo l’infortunio andava atteso. Il Giuseppe Rossi de noiartri. Diciamo pure che l’attesa non è stata ripagata, perché Nenad il campo non l’ha visto nemmeno in Serie B con Delio Rossi.

Dopo due anni con Krsticic a indossare la 10 arriva il momento di Joaquin Correa, il fulcro del progetto firmato Ferrero-Zenga. È palese che non mi possa schierare con chi, già dopo la gara con l’Atalanta, ha invocato la testa de El Tucu, perché a vent’anni non puoi basarti su due prestazioni, nemmeno complete, per giudicare un giocatore che, visibilmente, ancora non ha capito come funziona il nostro calcio. È passato quasi un anno dal suo arrivo, è vero, ma è ora che sta iniziando a giocare, non un anno fa: per Miihajlovic non era pronto, per l’infermeria non è stato pronto, ora potrebbe esserlo, ma se non si scotta non capirà quanto male fa il fuoco. Certo è che l’errore di ieri farà storia, se non l’ha già fatto: farà il giro del mondo, anche se in Argentina è già arrivato, perché loro se lo ricordano Correa. Ma Joaquin non è soltanto l’errore a porta vuota dopo aver superato, chissà come, Handanovic: ieri il nostro numero 10 è stato completamente nel pallone, distratto, avulso dalle situazioni di gara. Non ha indovinato un passaggio decisivo, non è riuscito a fornire un assist, ha perennemente cercato di saltare l’uomo prima di realizzare qualcosa, dimostrando che il suo gioco, nella sua testa, è ancora quello sudamericano. Se l’uomo riesci a saltarlo ce l’hai fatta, ma se non lo salti è un problema.

Lodo, però, moltissimo la reazione dei tifosi blucerchiati dopo il gol sbagliato: ogni volta che Correa prendeva palla un boato lo spingeva a correre, come se vi fosse una presenza ectoplasmatica alle sue spalle che lo invogliava a fare di meglio. L’escalation, però, ai boati di delusione era dietro l’angolo, purtroppo. In mixed zone lo hanno consolato un po’ tutti, da Ferrero a Muriel, facendogli capire che un errore così, ahinoi, ci può stare. Non è vero, ma glielo si dice. Perché è giovane, perché la Sampdoria è giovane, perché Zenga vede Pereira crossare in quel modo e se ne bea, poi gli si chiede perché toglie Correa per mettere Palombo invece di inserire Rocca – trequartista naturale – e si incazza, perché c’è sempre spazio e tempo per puntare i piedi e dire “ho ragione io”. Non sindachiamo. Però la prossima volta allo stadio gradirei vedere un gioco diverso dal lancio lungo di Viviano verso l’altrove. E vorrei che la Sampdoria, oggi, ci pensasse seriamente: questa 10, questa maglia tanto pesante, sarebbe ora di bandirla, di ritirarla, perché di fenomeni mediatici ne abbiamo fin sopra i capelli. Detto da chi si occupa di comunicazione…

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