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Quagliarella, il Bentegodi, e la distruzione dell’impossibile

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Al 26esimo minuto di Chievo-Sampdoria del 1 aprile 2007, il capitano Sergio Volpi raccoglie un pallone a campanile deviato da Bazzani, e serve Fabio Quagliarella con un piattone a mezz’altezza. Siamo poco dopo il cerchio di centrocampo. Il numero 27 blucerchiato, dopo aver stoppato il pallone di petto, si ricorda che in quella stagione si era ripromesso di scalfire il proprio cognome nell’Olimpo del calcio italiano. Per farlo è necessario mettere in atto ciò che solo i predestinati sono in grado di fare: osservare l’impossibile, ipotizzarlo possibile, trasformarlo in realtà.

Non appena il pallone tocca terra Quagliarella apre gli occhi che ha dietro la testa e osserva Squizzi, il portiere del Chievo. Si, si può fare. Mentre si coordina Quagliarella ipotizza la possibilità dell’impossibile. Il destro è potente, il pallone si alza. Quando comincia a scendere, esattamente in quella frazione di centesimi di secondo, l’impossibile si sgretola per lasciare spazio alla realtà. La faccia di Squizzi mentre la rete abbraccia il pallone è un’autoassoluzione: “Non guardate me, io sono umano”. Mentre i compagni abbracciano il numero 27 Bazzani guarda i blucerchiati sugli spalti picchiettandosi la testa con l’indice: «Questo è pazzo». No, non è pazzo. A scagionare Quagliarella dall’infermità mentale è la sequenza impressionante di gol straordinari che avrebbe fatto negli anni a venire.

Sabato Fabio tornerà in quello stadio con la maglia blucerchiata. E dunque buon rientro, con l’augurio di notare qualcosa di impossibile. 

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