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Quagliarella, cuore blucerchiato: «Voglio legare il mio nome alla Samp»

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Fabio Quagliarella, non sarà una bandiera ma sicuramente è il simbolo di un calcio che, purtroppo, sta scomparendo. L’ultimo, vero, professionista

La foto di Quagliarella dovrebbe apparire di fianco alla definizione di calciatore professionista in qualsiasi dizionario o enciclopedia. L’attaccante di Castellammare la cui lunga carriera è stata contraddistinta dal peregrinare da un club all’altro, ha tanto da raccontare e da insegnare a chi si affaccia nel mondo del calcio. Dovrebbe essere l’esempio per tutti gli sportivi: sempre umile, poco mondano, uomo che fa parlare il campo. Quando gli si chiede quale sia il gol più bello mai realizzato deve pensarci, perché Quagliarella di gol ne ha fatti tanti in carriera: «Come difficoltà quello da centrocampo contro il Chievo oppure la rovesciata a Reggio Calabria contro la Reggina. Mi piace quello al Mondiale in cui ho fatto il pallonetto in un momento difficile e importante per la squadra, ma bello fu anche il gol in Champions League con la maglia della Juve contro il Chelsea. Difficile trovarne solo uno, per me».

L’attaccante, con la testa e l’esperienza di un uomo di 34 anni ma il fisico e la fame di un ventenne, muove una critica ai suoi giovani colleghi. Qualcosa è cambiato nel calcio tanto da impedire ai ragazzi di osare: «Oggi vedo poco istinto negli attaccanti – racconta l’attaccante al Corriere dello Sportpochi che se ne sbattono di sbagliare. Io sono il tipo che se deve fare una rovesciata, un tiro al volo non ci pensa due volte. Se sbaglio, amen. Anche per questo ho fatto dei gol belli. Vedo tanti che invece sono sempre preoccupati da quello che possono dire gli altri. Poi i giovani, ora, se fanno due partite buone vengono osannati e se ne sbagliano due vengono distrutti. Perciò per loro è un problema. In Italia siamo famosi per la tattica, però io credo che si dovrebbe lasciare la libertà, soprattutto ad un attaccante che ha estro, di fare delle giocate. E’ sbagliato cercare di incastrarlo nella tattica, nei movimenti. Così si perde il piacere del calcio. Il piacere del gioco è lasciare libero il giocatore. Però nel calcio di oggi si guarda troppo ai risultati, è un calcio un po’ diverso da quello in cui sono cresciuto».

È sbagliata la formazione dei giovani talenti, ora si bruciano le tappe. Non nascono più tanti campioni in casa, si finisce sempre per bruciarli, tra panchina e Serie B: «Tanti escono dalla Primavera e vanno titolari in B o vanno a fare le riserve nel campionato in serie A. Secondo me non c’è una crescita, così. Io sono contentissimo di aver fatto la C2, poi la C1, la B e solo poi di essere arrivato in A. Si aveva a che fare con quelli più grandi di categoria che ti guardavano male male. Ti portavano a pensare: non so mica se ritorno a casa stasera. Secondo me quella è una scuola importante. Poi, la scuola dei campetti. I ragazzi non giocano più in mezzo alla strada. Adesso hanno tutti l’iPad in mano, l’iPhone, si sentono chi, si sentono campioni. Il calcio è fatica, gavetta, polvere. Tutto quello che serve perché diventi gioia».

Un rammarico Quagliarella lo ha, quello di non essere mai diventato una bandiera. Passare per tanti club ha i suoi pro ma anche i suoi contro: «Sarebbe stato bello essere la bandiera di una squadra. Il destino, diciamo così, mi ha fatto cambiare più squadre. Però, la cosa bella è che ho cercato sempre di lasciare un buon ricordo del Quagliarella giocatore, ma soprattutto del Quagliarella uomo. Ma ora mi piacerebbe legare il mio nome alla Samp, dove mi trovo benissimo. Giampaolo è il primo in assoluto. Quando l’ho incontrato venivo dalla serie B. Avevo vinto il campionato con il Toro e lui era in serie A con l’Ascoli. Ci dovevamo salvare, lui puntò tantissimo su di me e mi fece fare tantissime partite da titolare. E da lì ho preso consapevolezza di me».

Dopo la tripletta alla Fiorentina c’è chi ha gridato allo scandalo: Quagliarella avrebbe meritato un posto in Nazionale già contro la Svezia. Lui, in quella partita, avrebbe saputo segnare. L’attaccante non dà troppo peso, sebbene è sincero nell’ammettere che sarebbe stato felice di vestire di più la maglia azzurra: «Credo in quello che ho potuto dare. Ho fatto quasi dieci anni di Nazionale però le partite fatte sono state poche. Quando sono andato in azzurro, all’inizio, c’erano i campioni del mondo, giocatori straordinari. Negli anni a seguire, non lo so. Gli allenatori fanno le loro scelte, non sto a criticare. A me ovviamente dispiaceva quando non c’ero. Ho sempre cercato di fare i miei campionati, le mie partite, i miei gol. Alla nazionale una mano la potevo dare anche io. Mi potevano dare più fiducia. Questo mi dispiace».

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