Vialli: «Lo scudetto con la Sampdoria è la storia di Davide e Golia»
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Vialli: «Lo scudetto con la Sampdoria è la storia di Davide e Golia»

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Vialli e il palmarès personale: «Lo scudetto con la Sampdoria come la storia di Davide e Golia, la Champions League con la Juventus mi ha dato sollievo»

La leggenda ed ex attaccante della Sampdoria Gianluca Vialli è intervenuto sulle frequenze di BBC Radio 5 riavvolgendo il nastro della sua carriera e raccontando della sua recente battaglia contro il cancro.

PALMARÈS – «Quale trofeo conquistato mi emoziona di più ancora oggi? In termini di gioia, direi vincere lo scudetto con la Sampdoria, perché assomiglia un po’ alla storia di Davide e Golia. Un piccolo club di una piccola città, se paragonata a metropoli come Milano o Roma, che contro ogni pronostico è finito per sconvolgere lo status quo. Eravamo una squadra di amici, guidata da un visionario la presidenza. Riuscire a vincere il titolo è stata una gioia indescrivibile. In termini di importanza, direi la finale di Coppa dei Campioni da capitano della Juventus nel 1996. È stata la mia ultima partita con i bianconeri prima di trasferirmi al Chelsea. Avevo perso quattro anni prima a Wembley la finale col Barcellona, ai tempi della Sampdoria, quindi capite che ho passato tutto quel tempo a ripensare alla sconfitta. Quando son riuscita a vincerla con la Juventus, è stato un bel sollievo».

CELEBRITÀ – «Può essere pericolosa, ci può far dimenticare che siamo solo umani e che dobbiamo mantenere i piedi per terra. Non siamo dei. Penso che comunque dipenda molta dalla propria educazione, dai valori che ci sono stati inculcati fin da piccoli. Ovviamente, essere degli idoli è grandioso: vuol dire che stai facendo benissimo il tuo lavoro, ma allo stesso tempo il calcio è un’industria che produce ricordi, emozioni e noi calciatori possiamo veramente cambiare la vita di una persona vincendo o perdendo una partita o un trofeo. Questo è ciò che ti dà più forza, è bello sapere che segnare un gol può aiutare la gente a dimenticare i problemi della vita».

FAMIGLIA – «Sono stato molto fortunato, sono cresciuto in Cremona in una famiglia solida, ero il quinto di cinque fratelli. Ho iniziato la mia carriera da calciatore proprio lì, alla Cremonese, non ho dovuto lasciare la mia famiglia fino ai 20 anni. Dai 13 ai 20 probabilmente sono gli anni più delicati in termini di scelte, ma stare lì con i miei genitori mi ha aiutato a tenere i piedi per terra. Volevano che studiassi per prima cosa. La mia carriera era già nel binario giusto fin da quando è partita».

ERRORI – «Non penso di aver fatto qualcosa di particolarmente sbagliato. Non c’è niente che ricordi del genere, ho semplicemente fatto tanti errori. Come atleta professionista, credo fermamente che non si perda mai, o si vince o si impara. Ho fatto errori, ma li ho sempre analizzati e fatto auto-critica. Il punto è trarre insegnamenti dagli errori che fai, non sbagliare».

LA MALATTIA – «Avevo vergogna all’inizio, mi sentivo quasi in colpa. Non so se le persone nella mia stessa situazione abbiano provato lo stesso, ma all’inizio mi incolpavo di far soffire i miei genitori, di far preoccupare mia moglie e i miei amici. Ho avuto il cancro e all’inizio non volevo farlo sapere a nessuno, quasi egoisticamente per tenere tutte le mie energie per me. Passare tutto il tempo al telefono a rassicurare le persone che ti chiamano non pensavo fosse la cosa giusta da fare. Ho anche continuato a lavorare in televisione per un certo periodo. Poi ho iniziato a perdere i capelli e le sopracciglia, me le disegnavo. Mi aiutavano le mie figlie. Quando incontro altre persone non voglio che provino compassione per me, voglio che mi trattino alla stessa maniera degli altri. All’inizio non volevo dirlo ai miei figli per non farli soffrire, ma non è possibile mentire per sempre per proteggerli: bisognava dirglielo per metterli al corrente e dimostrare loro la mia fiducia, ho pensato “se non ti fido io di loro, come potranno fidarsi di loro stessi in futuro?”. È stato triste a tratti, ma poi è stato motivo di crescita per loro e supportante per me. Voglio ringraziare tutti per il supporto, mi hanno dato molta energia. Ho intenzione di rimanere in giro ancora per tanto tempo, quindi dovrete sopportarmi almeno per altri trent’anni».

DOPPIA NAZIONALITÀ – «La mia anima e il mio cuore sono italiani, ma mi sento anche inglese. Ho trascorso 42 anni lì, ma credo di avere anche un sacco di cultura anglo-sassone dentro di me adesso. Vivo a Londra, la adoro e penso che sia un gran posto in cui vivere».

PORTE CHIUSE – «Non sarà lo stesso ovviamente, il calcio è il calcio per i tifosi. Con il loro supporto dagli spalti danno coraggio, energia e desiderio di vincere le partite. Ho sempre capito come si possano sentire i calciatori in caso di infortunio o altre situazioni, perché le ho vissute anch’io, ma questa è nuova anche per me: non so come ci si possa sentire. Probabilmente si responsabilizzeranno, ma sarà difficile concentrarsi. Come si può preparare una partita quando senti ancora di gente che muore, con le notizie e le fake news che girano? Allo stesso tempo, però, abbiamo bisogno di provare a tornare alla normalità il più presto possibile».

CORONAVIRUS – «È frustante vedere quante persone muoiano da sole in ospedale, senza l’affetto dei propri cari. Sono contento che le cose vadano meglio adesso, non vedo l’ora di far visita ai miei amici, ai miei genitori e alle altre persone a cui voglio bene, ma non so quando potrà accadere. Fortunatamente la tecnologia ci aiuta».

PROGETTI FUTURI – «L’anno prossimo sarà il 30esimo anniversario dello scudetto della Sampdoria, qualcosa senza precedenti. Nel 1991 ci qualificammo anche per l’edizione della Coppa dei Campioni in cui arrivammo in finale. Ecco, magari potrebbe essere una buona scusa per un nuovo libro».

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